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NEW JAZZ FESTIVAL - II EdizioneL’anno scorso, per il suo debutto, il New Jazz Festival aveva inteso illustrare alcuni degli aspetti più nuovi e stimolanti di quella vasta area musicale around jazz nella quale oggi confluisce molta della tradizione jazzistica propriamente detta seppure assorbita, contaminata e resa attuale dai più moderni linguaggi sonori e rivestita dalle più diverse forme espressive, dall’hip hop al funky, dalla techno house ai ritmi latini, dal soul alla lounge, dal rhythm’n’blues alla canzone d’autore. Che le proposte fossero quanto meno significative lo ha dimostrato, al di là del notevole successo riscosso, il prestigio di artisti che hanno poi confermato il loro indiscutibile valore: basterà ricordare il pianista Giovanni Mazzarino, quest’anno proclamato miglior nuovo talento nel prestigioso referendum “Top Jazz”, e Sergio Cammariere, vera rivelazione dell’ultimo festival di Sanremo. Per questa sua seconda edizione, il New Jazz Festival ha deciso di alzare la posta e di risalire direttamente alle fonti storiche di quei fermenti che, a partire dagli anni Settanta, hanno determinato profonde mutazioni genetiche nell’evoluzione del jazz successivo. Insomma, il programma di quest’anno è incentrato proprio su alcuni dei protagonisti diretti di quella magica epopea che ha schiuso al jazz nuovi ed impensati orizzonti. Billy Cobham, leggendario batterista panamense che proprio a Palermo festeggerà i 59 anni, è certamente uno di questi personaggi. Celebre, intanto, per la spettacolarità del suo drumming, un concentrato esplosivo di potenza e velocità, Cobham è stato tra i primi in assoluto a coniugare sulle pelli dei suoi tamburi il linguaggio del rock con quello del jazz, codificando, assieme a Tony Williams e Jack DeJohnette, un nuovo stile percussivo. A lui si deve, inoltre, l’avere intuito e messo in pratica le possibilità di ampliamento espressivo che gli effetti elettronici offrivano alla tradizionale batteria. Ma, soprattutto, Cobham è stato tra i protagonisti diretti della memorabile “svolta elettrica” impressa al jazz da Miles Davis. Dopo album ormai consegnati alla storia come “Bitches Brew”, “On The Corner”, “Live Evil” e gli altri nei quali mise le sue bacchette al servizio del grande trombettista, il jazz avrebbe cambiato definitivamente il proprio corso. Appena conclusa l’esperienza davisiana, l’inesauribile vocazione all’esplorazione del nuovo e del diverso lo avrebbe portato ad essere testimone diretto (oltre che membro fondatore) di un’altra esaltante avventura, quella con la Mahavishnu Orchestra del chitarrista John McLaughlin, straordinario laboratorio alchemico nei cui crogioli venivano fusi assieme oriente ed occidente, aneliti spirituali e parossismi fisici, raffinatezze jazzistiche e sudori rock-blues. Nei decenni successivi, Cobham ha alternato l’attività di leader di proprie formazioni, tutte di impianto altamente spettacolare (una delle prime e più celebri fu Spectrum, con George Duke e John Scofield), a quella dell’insegnamento, diventando un caposcuola assai seguito, e non solo in ambito jazz, sia per la tecnica virtuosistica che per alcune particolarità da lui introdotte, per esempio l’uso della doppia grancassa e del piatto “cinese”. L’elenco delle collaborazioni (oltre quelle già citate) da lui sviluppate nell’arco della sua carriera è lo specchio fedele dell’ampiezza dei suoi interessi musicali: da Horace Silver a Carlos Santana, da Peter Gabriel a Gil Evans, da Sonny Rollins a George Benson, da Quincy Jones a Freddie Hubbard, da McCoy Tyner ai Grateful Dead. Lungi dall’esser domo, in questi anni Cobham ha sviluppato una mole considerevole di progetti assai diversi: si è dedicato alla composizione di colonne sonore (ad esempio, “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese, del 1988), ha maturato esperienze di world music con musicisti nigeriani e del Burkina Faso, nel 1996 ha dato vita a Nordic, un quartetto acustico formato da musicisti norvegesi, e subito dopo a Paradox, gruppo tedesco di stile fusion; ha poi trovato il tempo di costituire un gruppo, Jazz Is Dead, votato alla reinterpretazione in chiave jazzistica del repertorio rock dei Grateful Dead, di recente ha anche collaborato e inciso con la London Jazz Orchestra e, infine, ha da poco costituito il gruppo Culture Mix, alla cui testa si presenterà al pubblico palermitano. La formazione di Culture Mix è costituita da Junior Jill, steel pad, Marcus Ubeda, tastiere, Per Gade, chitarra elettrica, Stefan Rademacher, basso elettrico, e naturalmente Billy Cobham, signore dei tamburi. Conosciuto come uno dei contrabbassisti di maggior talento che siano usciti fuori dal periodo jazz-rock a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, Miroslav Vitous è un altro importante protagonista diretto di quegli accadimenti che avrebbero influenzato profondamente il corso della musica moderna. Inizialmente interessato tanto alla musica classica (ha frequentato il conservatorio di Praga, ove è nato 55 anni fa) quanto alle forme più tradizionali del jazz (da ragazzo suonava in orchestrine dixieland), Vitous a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta ha definitivamente abbracciato la causa della musica improvvisata, trasferendosi negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio alla prestigiosa Berklee School of Music di Boston. Assorbiti rapidamente i fermenti del nuovo ambiente, Vitous intraprende una serie di scintillanti collaborazioni con musicisti americani del calibro di Charlie Mariano, Bob Brookmeyer, Stan Getz, Miles Davis (esperienza, questa, tanto breve quanto incisiva), Chick Corea, Herbie Hancock, Jack DeJohnette e tutta la crema del jazz più innovativo del tempo. Il momento cruciale della sua carriera giunge, comunque, con l’esaltante avventura Weather Report, il leggendario gruppo che Vitous costituisce nel 1970, assieme al tastierista austriaco Joe Zawinul ed al sassofonista americano Wayne Shorter, col proposito di sviluppare le innovazioni davisiane e di pervenire ad un linguaggio libero da vincoli stilistici che inglobi, ad un tempo, suono acustico ed elettrico, jazz e rock, ritmi africani ed orientali. Tre anni dopo, per divergenze artistiche coi compagni, conclude la sua permanenza in seno al “bollettino meteorologico” ma fa in tempo ad incidere pietre miliari come “I Sing The Body Electric”, “Sweetnighter” e “Misterious Traveller”, album che hanno indicato realmente nuove direzioni e tuttora di straordinaria freschezza e attualità. Negli anni successivi, Vitous ha alternato la pratica musicale attiva a quella dell’insegnamento (è stato a lungo direttore del Dipartimento di Jazz annesso al New England Conservatory di Boston) e della sperimentazione tecnica, ad esempio progettando e realizzando un innovativo strumento a doppio manico che riuniva le funzioni di chitarra e di basso (strumento successivamente abbandonato). Impegnato anche nella musica classica, ha suonato spesso come solista nella Pittsburgh Symphony Orchestra e nella Music Viva di Boston. A partire dagli anni Ottanta, Vitous è ritornato a tempo pieno al jazz, riprendendo a più riprese lo storico Trio Music con Chick Corea e Roy Haynes, privilegiando un linguaggio più rigorosamente acustico ma sempre di straordinaria modernità che ne evidenzia l’eccezionale qualità timbrica, la grandissima morbidezza e, soprattutto, il superlativo controllo dell’archetto. Nell’occasione, Vitous si presenta in trio accompagnato da due dei più sensibili e raffinati improvvisatori italiani: Roberto Gatto alla batteria e Pietro Tonolo al sax. Seppure con percorsi profondamente differenti da quelli di Cobham e Vitous, anche la vicenda artistica di Bobby Durham reca il segno di una esperienza che pur rimanendo fortemente agganciata al nucleo della grande tradizione jazzistica ha saputo espandersi sino ad inglobare ogni contigua espressione dell’universo musicale americano, dal soul al blues, dal funk al gospel, dal country allo swing. Aveva iniziato appena sedicenne nel gruppo The Orioles ma ben presto lo stile completo, raffinato, fantasioso e versatile, in aggiunta alle eccellenti doti vocali, ne avevano fatto uno dei batteristi più richiesti al mondo. Ed infatti, Durham è noto, soprattutto, per il prezioso ed insostituibile sostegno ritmico che nell’arco della sua lunga carriera ha offerto al jazz più straordinario: per dieci anni le sue bacchette hanno accompagnato la voce immensa di Ella Fitzgerald, per altri dieci hanno scandito il sontuoso pianoforte di Oscar Peterson e per un intero lustro hanno fornito propulsione alla Duke Ellington Orchestra. Ma ancora più lunga ed altisonante è la lista dei musicisti e dei cantanti, bianchi e neri, jazzisti e non, che si sono contesi la preziosità dei suoi ritmi: da Count Basie a Pat Martino, da Frank Sinatra a James Brown, da Ray Charles a Marvin Gaye. Durham, inoltre, conosce assai bene il jazz europeo per avere soggiornato a lungo nel Vecchio Continente, e particolarmente in Italia dove ha spesso suonato, ad esempio nel gruppo di Enzo Randisi. Proprio in virtù di questi forti legami, negli ultimi anni Durham ha dato vita ad alcune interessanti formazioni assieme a musicisti scandinavi ed italiani. Nel concerto palermitano, Durham è accompagnato dal pianista Massimo Faraò e dal contrabbassista Wayne Dockery.
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